Cimarosa (1749-1801) rappresenta il momento culminante della scuola napoletana, ormai disseminata in tutta Europa e segnata non solo dal neoclassicismo ma anche dal proto romanticismo. Le date testimoniano che l’anagrafe di Cimarosa corre parallela a quella di Haydn e Beethoven e si incrocia per un quarantennio con quelle di Cherubini e Spontini e per un quindicennio con quella di Weber, primo alfiere del romanticismo musicale. Naturale che appaiano spunti impensabili in altri musicisti della stessa scuola. La biografia cimarosiana, inoltre, con quell’arresto e condanna per aver scritto l’Inno patriottico per il bruciamento delle immagini dei tiranni, certifica che siamo di fronte a un personaggio che vive nella sua epoca in un modo ben diverso da quello abituale dei musicisti-spettatori di eventi di prima: Cimarosa prende posizione e agisce di conseguenza, in ciò manifestando la sua modernità. E’ fatale allora che nelle sue opere, o almeno in certe, si affaccino spunti libertari interessanti; e anche quando essi siano costretti a convivere con altri, tipicamente classici o ancora perfino barocchi, non per questo appaiono trascurabili. E’ il caso de Gli Orazi e Curiazi, tragedia in tre atti su testo di Antonio Simeone Sografi, presentata da Cimarosa nel 1796 al teatro La Fenice di Venezia. Anche se restano tracce metastasiane nel libretto, ci sono i luoghi bui e scoscesi, gli antri orrendi che saranno cari agli operisti successivi. Gli eroi non hanno ancora imparato a usare la cabaletta come palestra di coccodè, ma non hanno neppure dimenticato la precedente palestra dei da capo fioriti. Neppure, però, Cimarosa insiste molto con le simmetrie delle arie tripartite; propone, anzi, gradevoli scene a pannelli: un pannello per ciascuno stato d’animo visitato dal testo. E un’orchestra, quella usata dal compositore, che la sa lunga e che arriva a sostenere con strumenti concertanti la limpida eleganza delle linee vocali. Naturalmente è scontato che questo primo derby romano venga giocato a suon di recitativi e arie; ma ci sono anche molti cori, duetti, pezzi d’ insieme, ci sono le passioni laceranti che la librettistica infila nella storia per renderla più coinvolgente. Non bastano i tre Orazi e i tre Curiazi a combattere per Roma o per Albalonga, occorre che Orazia sia fidanzata di Curiazio e che una Curiazia sia sposa di Orazio, onde le due donne siano colte in assoluto difetto di speranza: comunque vadano le cose esse perderanno o i fratelli o lo sposo adorato. Disperazione in ogni modo. Detto questo, come necessaria introduzione al lavoro, veniamo ora alla descrizione della nuova produzione discografica realizzata da VDC Classique e che sarà disponibile dal prossimo 20 ottobre (e che chi scrive ha avuto occasione di ascoltare in anteprima).
E’ molto complesso fare una recensione a un prodotto sostanzialmente perfetto, sia per quello che riguarda l’elemento principale, la qualità della registrazione e dell’interpretazione, sia per gli elementi accessori – sempre graditi – (un ottimo libretto interno con il testo completo dell’opera, un servizio fotografico di alta qualità per gli artisti, riproduzione di fonti iconografiche relative all’opera e al suo debutto veneziano e un’ottima introduzione storica, in italiano e inglese, e una cover che, per quanto atipica per un’opera classica, è sicuramente accattivante. Passiamo ai ruoli vocali: Nicholas Porrington e Antony Brownless, due tenori anglofoni con una più che decennale esperienza nell’interpretazione dell’opera antica o, comunque, protoromantica, sfoggiano un timbro vocale elegantissimo, con un’abilità rara nella tecnica della cosiddetta messa di voce. L’eleganza del loro legato e dei loro virtuosismi vocali, spesso richiesti a tutti i ruoli di quest’opera, rendono la fruizione della loro interpretazione non solo piacevole, ma assolutamente catartica. Sostanzialmente lo stesso si potrebbe dire dei tre ruoli femminili di Orazia, Curiazio (ruolo en travesti) e Sabina, interpretati rispettivamente da July Wason, Laura Valdarnini e Andreas Green, le quali assecondano con infinita sensibilità le richieste del direttore d’orchestra – di cui parleremo in seguito – e che riescono magistralmente ad amalgamarsi, nei pezzi concertati, con gli altri colleghi. Menzione anche per i due personaggi minori, l’Augure e il Sacerdote, interpretati da due giovani voci già perfettamente timbrate e, pare, a loro agio in questo non facile repertorio: Roberto Vicarelli e Roberto De Rosa. Qualche riga va indispensabilmente dedicata anche al coro londinese Vox Cordis, che certamente non ha un ruolo semplicemente coreografico nell’opera ideata da Sografi e Cimarosa. Le grandi scene corali, sono supportate da Vox Cordis con un’energia e un calore – oltre che da una estrema precisione tecnica – rarissime da trovare in qualsiasi registrazione operistica di qualsiasi repertorio. L’orchestra, Fête Galante Baroque Orchestre, è ormai, al pari del suo direttore, una certezza. Costituita a Parigi nel 2012, la compagine orchestrale che suona su strumenti originali, sarebbe probabilmente stato il sogno dello stesso compositore che, spesso, aveva a che fare con orchestre non proprio di eccelsa qualità. Fête Galante non sbaglia un fraseggio, gli ottoni non coprono mai con la loro “invadenza” sonora, sempre difficile da tenere sotto controllo anche dal più esperto cornista o trombettista, le linea principale degli strumenti ad arco e, soprattutto, delle voci, vere protagoniste delle opere di questo periodo. Nei tempi rapidi, gli archi eseguono numerose battute consecutive di note, come si dice “sciolte”, senza mai essere farraginosi: la linea musicale è sempre netta e chiara.
Il direttore d’orchestra, Simone Perugini – che, per inciso, oltre che dirigere, accompagna i recitativi al fortepiano. Parlare del rapporto tra la musica di Cimarosa e Perugini, ormai è come parlare, mutatis mutandis, di Anna Karenina e Vronskij di tolstojana memoria. La frequentazione ventennale del musicista fiorentino col cigno di Aversa già da tempo sta dando magici frutti, che maturano sempre più nel corso di questa folgorante carriera discografica. Perugini non esegue la musica di Cimarosa, la possiede, fisicamente. Si ascolti, ad esempio, con quale saporoso vigore, verrebbe da dire erotico, il direttore si approccia alla trascinante Ouverture o ai vigorosi finali dell’atto II e III e, al contempo, con quale capacità seduttività guida e consegna all’ascoltatore l’aria “Di quelle pupille tenere”. Perugini, in breve, non si approccia, come tanti direttori fanno, a una partitura del compositore napoletano con lo sterile “rispetto per il sacro autore” (che, comunque, è sempre evidente); Perugini di quella partitura, in qualche modo, se ne ciba, la tratta come se ne fosse costantemente affamato e ne vive, con tutte le fibre del proprio corpo, le più intime vibrazioni musicali. Perugini, coadiuvato dal suo straordinario cast, non restituisce al suo pubblico Cimarosa, lo spinge prepotentemente nelle case di quel pubblico e dopo che l’ascoltatore ha fruito di questa straordinaria alchimia sonora, non vuole più lasciarlo andar via.
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