L’inflazione è il primo elemento che guida le scelte di politica monetaria da parte delle banche centrali. Ecco perché ha fatto notizia la decisione della Federal Reserve di allentare lo stretto legame tra l’andamento dei prezzi e le proprie scelte sui tassi di interesse. Per un analogo motivo, la BCE ha invece deciso di lasciare apprezzare liberamente (o quasi) l’euro, perché – come ha detto Lagarde – non rientra nel mandato della Eurotower, che invece deve guardare all’obiettivo del 2% dell’inflazione.
I timori riguardo l’inflazione attesa
Questi timori sono ben rappresentati dalla correzione avuta delle obbligazioni “inflation linked“. Sono i così detti TIPS (Treasury Inflation Protected Security), ovvero quelle obbligazioni strutturate emesse da uno Stato sovrano, che incorpora una garanzia di salvaguardia contro la fluttuazione dei prezzi.
Ebbene, con la pandemia Covid-19 si è rivisto quanto successo nel 2008. Il tasso di breakeven del Tip decennale americano è precipitato al minimo a metà marzo al livello di 0,5%. In pratica si stima quasi l’assenza di una qualsiasi spinta inflattiva per i prossimi anni.
Ma il quadro è davvero così cupo?
In realtà le prospettive sembrano meno fosche di quel che si pensi. L’analisi fondamentale rivela infatti che, sebbene il Covid abbia avuto conseguenze pesantissime e difficili da quantificare, alcuni fattori potrebbero spingere al rialzo le attese d’inflazione. In primo luogo si è assistito al recupero del prezzo del petrolio, che addirittura ad aprile era scivolato in territorio negativo. In secondo luogo crescono i disavanzi di bilancio e il rapporto debito/Pil, che potrebbe indebolire ulteriormente il dollaro Usa. In più c’è una tendenza alla “deglobalizzazione”, che era già iniziata con la trade war Usa-Cina ma che adesso, proprio a causa del Coronavirus, potrebbe spingere le imprese al rimpatrio delle catene produttive.